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“Il silenzio dell’ultima notte” di Pino Caruso

Mer, Gen 15, 2014

Cultura

Profondità di pensiero ed introspezione sul filo della notte e del silenzio

Càpita che gli attori comici – con le loro battute e scene tendenti all’ilarità, all’ambiguità e addirittura alla volgarità – dimostrino superficialità e materialismo, con assenza d’introspezione e di problematiche. Ma non sempre è così: il siciliano Pino Caruso, ben noto al pubblico teatrale, cinematografico e televisivo di tutt’Italia, nel libro di liriche Il silenzio dell’ultima notte (Flaccovio, Palermo, 2009, pp. 148, € 14) fin dal titolo rivela una profonda interiorità e pensosità. Egli ha già pubblicato altri libri, fra cui L’uomo comune che nel 2005 vinse il premio “Palma d’oro” al festival dell’umorismo di Bordighera (IM).

Premesso che egli dichiara di scrivere «per il piacere / puro / di parlare anche / al mio futuro» (p. 30), l’autore nel libro in esame raccoglie una serie d’osservazioni e riflessioni relative alla  natura (particolarmente al mare) e alla propria solitudine in un contesto esistenziale del quale stenta a capire meccanismi e finalità. La silloge si snoda sul filo della notte e del silenzio, parole – queste ultime – che partendo dalla copertina ritornano frequentemente all’interno, perché la notte col suo silenzio suscita vari pensieri, particolarmente quelli inerenti all’ultima notte, cioè alla fine della propria parabola, quando i pensieri stessi«scenderanno / nel mare / per dormire / con i pesci nel fondale» (p. 12). Perciò alcune liriche sono scritte in treni, alberghi e spiagge, specialmente di notte (la quale porta consiglio), quando chi come l’autore è più portato alla riflessione, magari osservando mare, cielo, nuvole e luna.

In queste elucubrazioni più volte viene chiamato in causa Dio, al quale l’autore rimprovera d’“aver lasciato / a sé / tutta la conoscenza” (p. 19), di nascondersi se c’è fingendo di mostrarsi (p. 20), magari preferendo l’uomo che crede in lui per precauzione (p. 21): quel Dio che potrebb’essere il pittore inesistente d’un disegno mal riuscito (p. 78) e che ad ogni modo egli prega di chiamarlo “con delicatezza / senza strappi / dalle radici / che lui stesso ha voluto / che lui stesso ha inventato” (p. 125), allorché i suoi sogni si spezzeranno e non potranno essere portati via.

L’autore si chiede che sarà dopo la sua morte e s’immagina in qualche situazione o forma fantastica. Tuttavia egli spera nella poesia e ne proclama la perenne validità, scrivendo: “L’unico pensiero possibile / che travalica la sostanza / del tempo è la poesia / che riscatta gli impedimenti / della maligna sorte / e la mattanza della morte” (p. 78).

Molte liriche contengono immagini colte al volo, aneliti e fremiti, come quello del lumino nella bottega per la morte d’una zia. Talora s’incontrano scenari cittadini, vie e piazze di Palermo, Mondello, Catania, Roma, Parigi, Salisburgo: e in quest’ultima città egli sente echeggiare le melodie mozartiane ed aleggiare lo spirito del grande musicista. E a volte le passeggiate per il mondo avvengono tramite il calcolatore elettronico, dato che in effetti l’autore configura lo svolgimento del libro come un andare per il mondo alla ricerca di sé stesso, di Dio, del perché della vita e della morte, dell’aldilà.

E’ vero che in alcune liriche, per l’oscurità del dettato, non appare chiaro l’intento divulgativo; ma in genere il giudizio che si può dare del libro è positivo. La tecnica compositiva è buona: ci sono frequenti rime e assonanze e il taglio dei versi favorisce la riflessione. Inoltre la parte finale, intitolata Dissolvenze / Poesie di gioventù, presenta liriche che per titoli hanno dei numeri romani e si risolvono in quadretti impressionistici, ricordi nostalgici, pillole di saggezza. E la silloge si chiude con un’immagine di grand’effetto: “Muore nell’orto un verso di cicala / alle lontane linee il giorno esala / la luce” (p. 139).

Dal punto di vista grafico-editoriale il libro è decoroso e non contiene refusi. Si notano imprecisioni soltanto in una locuzione latina (p. 59) e nella citazione dell’ultimo verso del Paradiso di Dante; mentre “Ti crede” riferito a Dio avrebbe dovuto essere “crede in Te” (p. 21) e quello ch’è detto “sottofondo” dello schermo del computer avrebbe dovuto esser detto “sfondo” (p. 84). Inoltre i termini stranieri non hanno la necessaria differenziazione tipografica.

Con tutto ciò questa silloge si colloca degnamente nella produzione poetica del nostro tempo.

Carmelo Ciccia

Carmelo Ciccia

Nato a Paternò, dopo la laurea in lettere a Catania e un periodo d’assistentato universitario e d’insegnamento liceale in quest’ultima città, si è trasferito nel Veneto, dove è stato docente e preside, per molti anni nel liceo classico di Conegliano (TV), città in cui risiede e in cui svolge varie attività culturali. Ha pubblicato una ventina di libri e una quarantina di opuscoli ed estratti, anche in latino, quasi tutti di saggistica e di critica letteraria, principalmente su Dante, ma anche su altri scrittori. Collabora a numerosi giornali e riviste con articoli e recensioni (oltre un migliaio quelli finora pubblicati) ed ha ottenuto vari riconoscimenti, fra cui alcuni primi premi, premi della cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri, la medaglia d’oro dei benemeriti della scuola, della cultura e dell’arte, concessa dal Presidente della Repubblica, e la medaglia d’oro della città di Conegliano, concessa dal sindaco. Nel 2005 è stato invitato al Quirinale dal presidente Ciampi.

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