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“La mafia e lo Stato” di Emanuele Macaluso in due appuntamenti

Sab, Mag 24, 2014

Eventi

Il volume è stato presentato all’Università di Catania e al Comune di Misterbianco

La mafia e lo Stato. L’organizzazione criminale e la politica dalla prima alla seconda Repubblica (Edizioni di Storia e Studi Sociali), un libro denso, scritto da chi ha lottato in prima linea: Emanuele Macaluso, uomo di spicco della sinistra italiana e giornalista di prestigio nella considerazione di tutti i militanti della democrazia. Il volume, che abbraccia settant’anni di storia italiana e siciliana, indaga il fenomeno mafioso dalle origini feudali ai suoi intrecci con il potere ufficiale di ieri e di oggi. La complessa disamina è composta da un saggio scritto nel 1972 e da due interviste che puntano l’attenzione sulla trattativa e sull’intreccio tra potere politico e potere criminale nel passaggio dalla prima alla seconda Repubblica.

Di recente, il libro di Macaluso è stato presentato in un doppio appuntamento; il primo, il 10 aprile, all’“Auditorium” del Monastero dei Benedettini di Catania, organizzato Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Catania nell’ambito della rassegna culturale “In cerca d’autore” del periodico l’Alba; il secondo, il 12 aprile, realizzato con il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Misterbianco e ospitato presso lo Stabilimento “Monaco”. Ambedue gli incontri sono stati ravvivati dagli interventi musicali della folk singer Cinzia Sciuto.

Ai Benedettini, hanno discusso con il Senatore, il prof. Nunzio Famoso (già preside della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere), il prof. Rosario Mangiameli (docente ordinario di Storia Contemporanea della facoltà di Scienze Politiche) e il prof. Pino Pesce (direttore del periodico l’Alba). Diversi gli spunti di riflessione emersi sul testo che è un «viaggio storico nella mafia». Dalla nascita del regno unitario al fascismo si ravvisa come «la mafia sia  parte integrante e integrata del sistema di potere locale; strumento dei ceti dirigenti locali per il loro dominio politico, e in modo largamente e quasi di continuo collimante con gli interessi della politica centrale nei confronti della Sicilia». Non diversamente avviene in quasi cinquant’anni di prima Repubblica. Dal 1947 al 1992, le classi dirigenti hanno mantenuto un atteggiamento di “quieto vivere” nei confronti del potere criminale. E ciò rappresenta la forma di continuità con il passato, con quel «vizio d’origine» sul quale viene costruito la Stato italiano. Gli snodi più significativi della relazione tra l’organizzazione mafiosa e il potere ufficiale sono stati messi in evidenza nel corso della presentazione dai relatori. Nell’evoluzione della fenomenologia mafiosa fondamentale per spiegare tale rapporto è, come sottolinea il prof. Pesce, il passaggio che rappresenta «il salto di qualità» della mafia: dal feudo (la mafia rurale degli agrari e dei gabellotti con punte leggendarie da «mafiusi della Vicaria») alla sua azione tentacolare verso la città, al correlato processo di urbanizzazione e agli interessi ad esso connessi, per poi passare ai delitti eccellenti (vedi l’uccisione del giudice Pietro Scaglione nel 1971) e quindi agli anni dello stragismo. Non è un caso, infatti, che il saggio sia dato alle stampe l’anno successivo. Il senso della relazione tra mafia e politica così razionalmente avvertibile nelle pagine di Macaluso viene evidenziato dal prof. Famoso che mostra la configurazione «a mosaico» del testo, i cui tasselli sono rintracciabili nell’origine della mafia dell’800, dovuta all’assenza dello Stato nel meridione, nel fascismo che con un’operazione di facciata si libera della «mafia prezzolata», inglobando invece «l’alta mafia nel sistema di governo».  Attorno alle diverse sfaccettature della questione mafiosa e della relazione con il potere ufficiale, che si modifica in base ai contesti storici e alle dinamiche sociali, il prof. Mangiameli mette l’accento sull’ultimo scorcio degli anni ’60, quando la mafia da rurale «si organizza a livello più generale». Un cambiamento importante che non «viene recepito» e, di conseguenza, «non viene approntato nessuno strumento» per bloccare l’espansione mafiosa che «solo la buona politica può contrastare e fermare». L’affidare la lotta alla mafia alla politica è proprio la cifra distintiva del lavoro di Macaluso che, con voce ferma nella sua lucida analisi, si definisce un «uomo politico impegnato nelle lotte politiche, sindacali e sociali». Nella sua argomentazione evidenzia come nello scontro sulla questione mafiosa centrale è il rapporto tra Sicilia e Stato e tra mafia e Stato. La motivazione di fondo  del saggio del 1972 consiste nella presa d’atto  dell’immutata esistenza di questi rapporti.  Alla luce di ciò, la lotta alla mafia deve proprio partire dalla politica per estendersi ai tessuti sociali e culturali. «Da anni, invece, la sinistra ha delegato le procure, diventando esercito di supporto della magistratura. Non esiste un dibattito reale per ipotesi di aggiornamento nella lotta alla mafia: c’è un vuoto politico impressionante».

In questo quadro, si inserisce la seconda tappa del 12 aprile. Nel salutare Emanuele Macaluso, il sindaco Di Guardo, si rivolge al senatore come ad un figlio straordinario della Sicilia che sempre ha lottato per l’emancipazione dei popoli. Memoria politica e storica, nelle parole dell’Assessore Barbara Bruno, arricchimento della nostra coscienza. Nella presentazione dei proff. Famoso e Pesce si rinviene proprio l’impegno nelle lotte di Macaluso e il valore delle pagine del testo che, con stile asciutto e senza fronzoli, devolve al lettore una cavalcata di più di un secolo, offrendo l’affresco dell’evoluzione mafiosa con i toni di «un narratore addetto ai lavori». Lontano dal disincanto, Macaluso racconta l’importanza delle lotte contadine sulla «geografia politica siciliana». E ricorda con accorata commozione i trentasei capi lega morti per la libertà dei più vessati. La sua prima esperienza di lotta alla mafia nelle zone feudali risale al 1944, quando, allora sindacalista, accompagnò Li Causi, dirigente del PCI, a Villalba. «Una vera sfida al capo della mafia», Calogero Vizzini, perché veniva spiegato ai contadini il duplice sfruttamento al quale erano assoggettati, sia da parte dei proprietari, sia dei gabellotti. Dare dignità ai contadini che con il decreto Gullo potevano legittimamente occupare le terre incolte, significava «sferrare un colpo durissimo alla classe dei “baroni”». La questione fondamentale del libro risiede nel compromesso politico avvenuto dopo il 1948, quando «apparati dello stato e la magistratura si schierano con le forze sociali e politiche che usano e sono usate dalla mafia». Ufficialmente per difendersi dal comunismo, in realtà per mantenere i «vecchi assetti sociali». Da qui lo snodarsi dei mutamenti dei legami politico-criminali fino alla fine degli anni settanta quando cambia il clima politico. Il PCI si avvicina alla compagine governativa e la magistratura conosce una nuova generazione, «diversa da quella degli anni ’50 e ’60» che vede nel procuratore Costa il capostipite del cambiamento di mentalità. Lotta alla mafia che diventa sempre  più organica coinvolgendo oltre la politica anche le procure e la società civile. La risposta della mafia si concretizza con la «mattanza» di magistrati: Terranova, Costa, Chinnici fino a Falcone e Borsellino.  Ciò che manca oggi è una lotta alla mafia dei partiti politici che trascini anche la cultura e la società. E la lotta dovrebbe essere portata avanti dalla sinistra, nata per l’avanzamento delle classi lavoratrici, l’uguaglianza delle persone e la libertà, «affinché non ci sia altro potere a parte quello dello Stato che possa condizionare la vita dei cittadini».

M. Gabriella Puglisi

M.Gabriella Puglisi

Dottore di ricerca in “Modelli di Formazione. Analisi Teorica e comparazione”. Laureata in Scienze politiche ha collaborato con diverse testate locali. Ama la lettura, la musica e il balletto; la notte e il mare. Non le piace la mancanza di autocritica.

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