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“Teatro” di Vincenzo Pirrotta, attore e regista siciliano

Lun, Nov 12, 2012

Cultura

Cattivo italiano, pornografia, dialetto e versi-epigrafe non invitano alla lettura

Questo libro — per vicende, personaggi, ambientazione e frasario, nonché per la cruenta vendetta finale — è deprimente e diseducativo: sembra che l’autore, pur portando avanti tematiche meritevoli d’essere condivise e sostenute, insista con estremo realismo nella puntigliosa descrizione di vicende sozze e nell’uso di termini triviali soltanto per gusto personale, anziché per vere esigenze artistiche o sociali: e ciò squalifica l’intero libro, mancando in esso la serietà necessaria alla trattazione di certi problemi

Il libro Teatro di Vincenzo Pirrotta, attore e regista siciliano che qui raccoglie cinque suoi lavori teatrali, ha almeno quattro motivi che non invogliano alla lettura: la scorrettezza morfo-sintattica, la pornografia, una gran parte di pagine in dialetto e l’allineamento centralizzato dei versi a mo’ d’epigrafe.

Premesso che per chi non sia di quella zona non è agevole leggere i moltissimi brani dialettali, data la varietà dei dialetti in ambito non soltanto nazionale ma anche regionale e provinciale, per i testi in cui essa esiste si può leggere la susseguente versione in lingua italiana. È vero poi che a volte l’autore fornisce in nota la traduzione in italiano di certi termini dialettali, ma ciò non avviene sempre (ad es. cuntista a p. 65 e altrove; ruttata a p. 135); e inoltre talora egli dichiara intraducibili termini come chiaccu (p. 126), che invece si traduce con “cappio” o “capestro”.

In All’ombra della collina un ragazzo, frequentatore dell’opera dei pupi, viene deriso perché vuol andare a fare l’attore, mentre la madre lo esorta ad andare a lavorare. Nutritosi della lettura dei libri di Pier Paolo Pasolini, che gli sono stati lasciati in eredità dal nonno comunista e in cui la madre vede il diavolo e l’inferno, il ragazzo incontra lo stesso Pasolini, che, invocando l’amato alunno Nisiuti, lo conduce in un inferno immaginario, dimostrandogli che questo non esiste se non nella fantasia di chi lo crea. 

In Malaluna, dopo aver rievocato un omicidio di mafia alla cui preparazione era stato costretto un giovane ora carcerato, il protagonista ricorda la sua adolescenza inquieta in cerca di soddisfazioni sessuali, incappando prima in una donna che, come altre della marina, per soldi riceve ragazzini e poi in un avvocato lascivo che con pratiche immorali gli fornisce il denaro occorrente per entrare da quella donna.

In La ballata delle balate (e l’autore in nota chiarisce che queste in dialetto sono le pietre da lastrico) è presentato un mafioso latitante e falsamente devoto, il quale, conciato da confrate (cfr. l’emblematica illustrazione della copertina), il venerdì santo nel suo covo alterna professione di fede, memorie della solennità, gesti sacri e giaculatorie a rassegne d’omicidi e minacce, dichiarando che nel sentenziare la morte di qualcuno egli si sente come Dio, a cui s’avvicina.

In La grazia dell’angelo l’autore da una parte coglie particolari della tradizione della festa di S. Rosalia e dall’altra sottolinea la doppia faccia dei politici, anzi la loro velenosità come quella di vipere striscianti per la città, alla quale tuttavia augura un futuro migliore.

In Sacre-Stie l’autore presenta il drammatico caso d’un sacerdote vittima d’atti di pedofilia da parte d’un rettore di seminario, contro il quale, una volta che costui è divenuto cardinale, esercita la sua vendetta accecandolo, dopo avergli contestato la sua orribile colpa con una pesante requisitoria. Ma è evidente che, quando uno che si proclama sacerdote impugna la pistola, grida frasi oscene e compie gesti sanguinari, egli non è più credibile come sacerdote stesso.

A lettura finita, non senza fatica e a volte con notevole ripugnanza, si ha l’impressione che l’autore, per l’accurata conoscenza del rituale cattolico, di giaculatorie, passi biblici, arredi sacri, preghiere, rosari e litanie, possa essere stato un chierico, un sacrestano, un seminarista, un mancato sacerdote, eventualmente lui stesso vittima della pedofilia qui condannata con un atto d’accusa esteso a tutta la Chiesa cattolica, compreso l’attuale papa. In effetti parecchi elementi del libro denotano un forte autobiografismo, a cominciare dal nome Viciuzzu del protagonista del primo lavoro, nome che potrebbe essere un ipocoristico di Vincenzo, il Pirrotta stesso.

Certamente il crimine della pedofilia, nella lettera pastorale citata dall’autore definito Crimen sollicitationis, cioè delitto d’adescamento (dovuto al fatto che questa Chiesa, con un divieto non presente né nell’Antico né nel Nuovo Testamento, è l’unica fra le cristiane a non permettere il matrimonio dei sacerdoti che volessero sposarsi) sconvolge ad oltranza la vita delle vittime; ma ciò non giustifica l’atroce vendetta perpetrata nel quinto lavoro del libro. Inoltre si nota con meraviglia che a tale reazione non corrisponde analoga reazione nei confronti del Pasolini (introdotto nel primo lavoro), di cui è vista con tolleranza l’omosessualità esercitata nei confronti dei propri alunni, fra cui quel Nisiuti (del racconto pasoliniano Atti impuri), qui ripetutamente chiamato.

Importante è poi il discorso fatto a proposito della mafia, della falsa religiosità e della politica affaristica: tutte cose che pongono il Pirrotta come autore d’impegno sociale; ma risultano sgradevoli le rievocazioni di quelle esperienze sessuali dell’adolescenza che normalmente negli adulti vengono lasciate cadere nel dimenticatoio, mentre qui vengono propalate ai quattro venti con dettagli nauseanti, anche per la sistematica frequenza.

Quanto all’ordito linguistico di questo libro, chi pensa a Lo cunto de li cunti overo lo trattenimento de’ peccerille (= “Il racconto dei racconti ovvero l’intrattenimento dei bambini”) del napoletano Giambattista Basile (1575-1632) rammenta una prosa ariosa e armoniosa, con lunghi periodi ben articolati, tanto che l’opera fu anche denominata Pentamerone. Il cunto di questo libro, di tradizione palermitana, è scheletrico e viene gridato da un cuntista posto al centro della scena. Qui, oltre al miscuglio di dialetto, italiano e latino, si nota che l’autore non riesce — tranne che in poche pagine — ad impostare una consistente trama narrativa o dialogica, affidandosi per la maggioranza delle pagine a canti popolari, ballate, filastrocche, dicerie infantili e tiritere varie, con proposizioni nominali brevissime e assiomatiche. Inoltre quand’egli scrive in italiano la sua prosa contiene parecchie espressioni dialettali: nel lessico (es. buttana, una scanna, masculiata), nell’ortografia (es. cci dice, a diri), e nella sintassi (es. guardarla alla buttana, aspetta a me, inghiotte a S. Leonardo, quando uscivano il santissimo, lo uscivano dalla chiesa, io li vedevo a quelli, vi trovi a tutti, averci voluto prenderci, a uno monte alla luna); ed è improbabile la parola siciliana buttana fatta pronunciare perfino al friulano Pasolini.

La lingua del Pirrotta è priva d’ampio respiro e presenta vari errori morfo-sintattici e di punteggiatura, che ne compromettono anche il senso, mentre i termini non italiani non sono messi sempre in corsivo o tra virgolette. A parte altri refusi (ribbollio, libbri, peccatto, dive, Bulbii, rincipe, ecc.), soltanto per fare qualche esempio qui si riportano alcuni errori di lingua: Quello che è stato pensato […] potranno essere “ripensati” (p. 5), altri racconti di Palermo che è Luna e Malaluna (p. 7), nello Geenna (pp. 20, 21), vinniggna/vinniggni (anziché vinnigna/vinnigni: pp. 21, 41), Humnus (anziché Hymnus: p. 38), vanggiavi (anziché vagnavi: p. 50), da lì su (anziché da lassù: p. 67), le unghia (p. 78),  il sangue che ha buttato dal cuore Impastato, Terranova e Boris Giuliano (p. 119), quella fine estate (anziché quella fine dell’estate: p. 120), San Giovanni e Giacomo (anziché Santi Giovanni e Giacomo: p. 123), Pange Lingue (anziché Pange lingua: p. 125), lumini davanti alla vergine (anziché lumini davanti alla Vergine: p. 159), fortier (anziché fortiter: p. 162), Milithia (anziché Militia: p. 163), i quis (anziché si quis: p. 163), Estore (anziché Estote: p. 163), Ricordo perfettamente è come (anziché Ricordo perfettamente come: p. 164), flenulo (p. 169), humilitates (anziché humilitatem: p. 173). Inoltre ora si parla di Partinicu e arrivi granni (p. 13) ora di Partinucuarrivigranni (pp. 14, 15, 21); e poi certe preposizioni articolate risultano staccate (a le, da i, de la: pp. 120, 138, 145) e il frutto fico risulta sempre di genere femminile e numero invariabile (queste fico, queste altre fico, le  fico: pp. 73, 76).

Certamente sono interessanti le caratteristiche grida dialettali del mercato di Ballarò (anche se vi manca la traduzione), l’originale litania sacro-blasfema, la descrizione della processione del venerdì santo, l’icasticità di certi brani come quello in chiusura della festa di Santa Rosalia (con i politici che succhiano chiocciole e cervelli), l’accostamento del registro aulico-solenne a quello plebeo-triviale. Ma complessivamente questo libro — per vicende, personaggi, ambientazione e frasario, nonché per la cruenta vendetta finale — è deprimente e diseducativo: sembra che l’autore, pur portando avanti tematiche meritevoli d’essere condivise e sostenute, insista con estremo realismo nella puntigliosa descrizione di vicende sozze e nell’uso di termini triviali soltanto per gusto personale, anziché per vere esigenze artistiche o sociali: e ciò squalifica l’intero libro, mancando in esso la serietà necessaria alla trattazione di certi problemi. 

Carmelo Ciccia

 

 

Carmelo Ciccia

Nato a Paternò, dopo la laurea in lettere a Catania e un periodo d’assistentato universitario e d’insegnamento liceale in quest’ultima città, si è trasferito nel Veneto, dove è stato docente e preside, per molti anni nel liceo classico di Conegliano (TV), città in cui risiede e in cui svolge varie attività culturali. Ha pubblicato una ventina di libri e una quarantina di opuscoli ed estratti, anche in latino, quasi tutti di saggistica e di critica letteraria, principalmente su Dante, ma anche su altri scrittori. Collabora a numerosi giornali e riviste con articoli e recensioni (oltre un migliaio quelli finora pubblicati) ed ha ottenuto vari riconoscimenti, fra cui alcuni primi premi, premi della cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri, la medaglia d’oro dei benemeriti della scuola, della cultura e dell’arte, concessa dal Presidente della Repubblica, e la medaglia d’oro della città di Conegliano, concessa dal sindaco. Nel 2005 è stato invitato al Quirinale dal presidente Ciampi.

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